Il clima è impazzito o stiamo impazzendo noi?

Riflessioni culturali su un presente che brucia
Temperature record a maggio, incendi boschivi in anticipo, piogge torrenziali alternate a lunghi periodi di siccità. Ogni anno sembra peggiorare il precedente. Le notizie parlano di "allarme clima", ma sempre più persone si stanno abituando all'idea che questa anomalia sia diventata normalità. Il clima è davvero impazzito? O siamo noi che abbiamo smesso di ascoltare?
La questione non è solo scientifica. È anche culturale.
Come società, abbiamo perso il contatto con il senso del limite, del tempo, della trasformazione ciclica. E lo vediamo non solo nei termometri, ma anche nei libri, nel cinema, nell'immaginario collettivo.
📖 Letteratura e catastrofe: da profezia a realtà
Non è un caso che i romanzi distopici abbiano conosciuto una nuova fioritura negli ultimi vent'anni. Da La strada di Cormac McCarthy a Il ministero per il futuro di Kim Stanley Robinson, l'arte ha cercato di raccontare un mondo post-catastrofe molto prima che le temperature iniziassero davvero a salire.
Eppure, queste narrazioni spesso non smuovono le coscienze. Perché?
Forse perché siamo passati dalla paura alla saturazione.
O forse perché abbiamo sostituito l'azione con la narrazione: ci raccontiamo il disastro per esorcizzarlo, ma non cambiamo davvero.
📽️ Il grande silenzio visivo
Anche il cinema, spesso sensibile alle emergenze storiche, fatica a offrire nuovi sguardi. Se da un lato film come Don't Look Up denunciano con sarcasmo l'inazione politica, dall'altro rischiano di farci sorridere amaramente senza più indignarci.
Lo stesso vale per le immagini dei telegiornali: incendi, alluvioni, bollettini meteo estremi scorrono come fossero paesaggi qualsiasi. Ma dietro ogni evento c'è una domanda che ci riguarda: che tipo di mondo vogliamo lasciare?
🧠 Il tempo culturale del cambiamento
La vera sfida, oggi, è riconquistare uno sguardo critico sul presente. Un tempo lento, non solo climatico, ma cognitivo: fatto di consapevolezza, responsabilità e azione.
Le arti, le parole, le immagini non devono solo denunciare. Devono restituirci un linguaggio per pensare l'irreversibile.
E forse, anche per immaginare un modo diverso di vivere la Terra.
Il Calamaio vuole essere uno spazio di riflessione.
Un luogo in cui fermarsi, anche solo per un istante, e chiedersi non soltanto cosa stiamo guardando, ma come lo stiamo guardando. Perché le immagini che scorrono ogni giorno davanti ai nostri occhi – che siano volti, notizie, film, libri, dati, incendi o lacrime – non sono soltanto emozione.
Sono anche linguaggio.
E ogni linguaggio, se ascoltato davvero, ci chiede di capire.
Per questo, guardare non basta.
Serve una lente più profonda, una soglia che ci spinga oltre la superficie.
Serve chiedersi cosa stiamo davvero vedendo – e cosa abbiamo smesso di vedere.
È in questa domanda che comincia la cultura.
È da qui che parte ogni tentativo sincero di comprensione.