Promesse - Di Charles Krevigoskji

05.06.2025

🕯️ Promesse -  Stanza n°7

Quando mi ritirai abbracciato al mio sacchetto di carta, contenente la mia cena – un panino e due bottiglie di vino – trovai una gran confusione di gente sotto al mio palazzo.

Vivere nei quartieri popolari ti abitua ad avere sempre gente tra i piedi, anche se non la vuoi. Ma quella volta era davvero troppa.

«Buonasera, questo è il nuovo candidato sindaco» fece il prete, accompagnandolo per il quartiere e rivolgendosi a me, anche se credo non mi avesse mai visto.

Lo guardai carico di tutta la rabbia di aver passato un'intera giornata maciullata nel tritacarne del lavoro, e gli sparai direttamente negli occhi la mia risposta:

«Deve saperlo, signor padre, che il diavolo è mancino!»

Passai fra quella moltitudine e me ne salii al mio appartamento, camera e cucina ricavati da uno più grande, subaffittato da una coppia di vecchi che non sapevano più come tirare avanti.

Quello era un periodo ricco per me. E per me, il periodo ricco è quando lavoro almeno dieci giorni a settimana. Anche se si prendevano l'anima prima di pagarmi.
E quando ero ricco potevo permettermi di dormire in un letto, anche se spesso portava ancora i residui di chi ci aveva dormito prima.

Avevo un gran programma per quella serata: godermi la mia solitudine. E certamente non me lo sarei fatto rovinare da quelle presenze.

Abitavo da poco lì, e non conoscevo nessuno. Fortunatamente.

Ma appena chiusa la porta dietro alle mie spalle, qualcuno già bussava a quella specie di campanello gracchiante, ridotto all'osso da anni di disturbi.

Continuai a camminare lungo il corridoio verso la mia stanza. Insistevano a suonare.
In casa non c'era nessuno e quelli continuavano a rompere. Appoggiai il mio sacchetto sul letto e tornai indietro.

Aprii.

Era una ragazza. Non la feci nemmeno parlare:

«I vecchi non ci sono. Non c'è nessun altro oltre me.»

«No, no, non cerco loro. Ho visto entrare lei. Tutto il condominio è giù a sentire quelli.»

«Prego allora, accomodati, accomodati» dissi.

«Però dovresti passare nella mia camera. Se è me che cerchi, i miei ospiti non possono sostare nel resto della casa.»

Mi seguì. Subito si sedette sul letto, accanto al mio sacchetto.

«È la mia cena» dissi. «Panino e vino.»

«Ottimo» fece, guardando dentro.

Divisi il panino. Mangiò con gusto.
Stappai la prima bottiglia. Bevve altrettanto di gusto.

Era una studentessa, mi disse. Anche se la madre la mandava giù quando riceveva i clienti, e il padre non si sapeva chi fosse. I fratelli, tutti in galera.

«E tu?» domandai, come se avessi avuto paura per lei.

«Tranquillo. Vado a lavorare da una vecchia a cui nessun figlio vuole pulire il culo. Mammina di qua, mammina di là… e poi nessuno a pulirle il culo.
Sai, la pagano bene la merda» disse scoppiando a ridere.

Sveglia, la ragazzina, pensai.

«Anche tu lo so, lavori per sopravvivere. Ma in realtà vorresti fare altro.»

«Altro?» domandai.

«Sì. Ho letto qualcosa di tuo in giro. Non ti vorrei demoralizzare, ma scrivere è come recitare in televisione: devi avere qualcuno che ti tromba per diventare famoso. E tu non sei nemmeno femmina.»

«Grazie, ragazza. Sei di un gran conforto.»

Rideva.
Come una ragazzina più sveglia di un'adulta.
E come un'adulta, un po' ragazzina.

«Sai, a me qualche proposta l'hanno fatta all'università. Ma non ho scopato nemmeno con i più giovani e belli. Io non sono in vendita, bello.»

«Non ci crederai, ma pure a me volevano trombare. Non in quel senso… ma facendomi scrivere come volevano loro.
Quindi mi avrebbero comunque trombato. Dietro pagamento.»

«Ah, oh oh oh!» scoppiò in una risata seria.
«Però…» stava concludendo lei.

«Chissà come sarebbe scopare con uno scrittore fuori del comune.»

«Quale comune? Questo, che avrà il prossimo sindaco?»

«Ah, oh oh oh…»

Mi si appiccicò alla bocca.
E lo facemmo entrambi gratis, semplicemente perché nessuno dei due aveva un prezzo.

Giù, il megafono prometteva senza promettere niente…

Racconto tratto dalla raccolta Operai pazzi, edita da Ortica Editrice.